Equilibri e disequilibri. Il lavoro di cura nelle famiglie con anziani

di Patrizia Taccani - Psicologa, formatrice
Marzo 2009

 

Quasi sempre nella vecchiaia le persone chiedono che venga rispettato il loro desiderio di restare a casa, pur in condizioni di grave dipendenza, chiedono, apertamente o implicitamente, tutela del loro diritto alla domiciliarità[1].  E’ noto come negli ultimi anni la possibilità per i grandi anziani di vivere e morire a casa propria sia da collegarsi  anche al diffondersi dell’assistenza privata fornita da donne, soprattutto straniere. Il tema è stato ampiamente trattato in numerosi saggi, rapporti di ricerca; anche questa Newsletter ha contribuito a diffondere conoscenza con il mettere in rete dati, approfondimenti,  dibattiti, progetti di lavoro intorno al fenomeno delle assistenti familiari private e ai problemi ad esso connessi.

Qui vorrei portare qualche riflessione sui possibili esiti interni a un sistema familiare in cui avvenga l’inserimento di un’assistente familiare per la cura di un membro anziano non autosufficiente. Le esperienze cui faccio riferimento sono state raccolte negli ultimi anni all’interno dei gruppi di automutuo aiuto formati da caregiver. Esse mostrano il doppio volto dell’aiuto a domicilio a pagamento: il volto amichevole che appare quando la cura affidata a mani altre costituisce un vero e proprio supporto e un indispensabile, benefico tassello nell’organizzazione assistenziale di una famiglia; il volto deludente, che si mostra con l’aggravio psicologico e relazionale, addirittura, in certi casi, con la crescita dei fattori di stress per anziano e familiari.
 
Innanzi tutto i racconti dei caregiver rivelano il comune denominatore del “fai da te familiare” durante il percorso di ricerca, il momento della scelta della persona cui affidare l’anziano, o dalla quale farsi affiancare nella cura. Volendo poi identificare dove si siano riscontrate meno difficoltà e dove invece appaiano più numerose, si può iniziare con il sottolineare come siano gli uomini, in particolare i coniugi, a vivere come risorsa l’affiancamento della badante al loro lavoro di cura.
 
Un coniuge quasi ottantenne nel raccontare il rapporto tra la signora sudamericana (che descrive con accenti di sincera ammirazione) e la propria moglie colpita da demenza dice:
 
“Vanno a fare lunghe passeggiate …fuori vanno d’accordo…in casa no…allora ho fatto una separazione, nel senso che quando lei è in cucina noi andiamo nel soggiorno… se lei è in soggiorno, idem, cambiamo… …l’altro giorno l’ho sentita dire alla Maria [la badante n.d.r] “Disgraziata!!!” non l’avevo mai sentita parlare così, mi è spiaciuto moltissimo…”.
 
Un altro ha accenti di soddisfazione anche se non è stato lui a prendere la decisione ultima:
 
“Le mie figlie hanno visto che non ce la facevo più e mi hanno praticamente messo in casa due badanti, bravissime … ora sono contento, riesco a uscire, a staccare un po’ senza quell’affanno che avevo … mi organizzo bene con il tempo … va molto meglio.”
 
Sono più spesso le figlie caregiver principali a mostrare maggiore incertezza, a descrivere l’ambivalenza verso questa soluzione, a fare dei tentativi spesso interrotti. In presenza di  gruppi/coppie di fratello e sorella è ancora il maschio a iniziare il discorso “badante” e la sorella a prendere tempo.
 
A proposto di ambivalenza in un gruppo ascoltiamo un racconto emblematico:
 
"….sto cercando la badante, ma forse non la trovo, o non la voglio trovare, non lo so.. Una parte dice: “Vai e fai quella cosa…un’altra mi dice di no, di stare ferma così. […] Devo trovare il personaggio giusto. Due le ho scartate! Non mi sono piaciute. Una perché non rideva mai, quell’altra era troppo curiosa… no, no... eh… adesso ho un terza che proverò, mi sono decisa a provare questa.”  E dopo averne assunta una: “ A mia mamma va bene, ma a me no. Mi sento giudicata … e da una badante poi! Ora cerco un centro diurno, me ne libero …”

Una corsa ad ostacoli per tutti? Per la figlia caregiver certamente vista l’ambivalenza ai limiti dell’angoscia con cui vive questo tipo di aiuto, per l’anziana che risulta avere scarsissima voce in capitolo sulla sua stessa vita, per l’assistente familiare che da un giorno all’altro perde il lavoro.
 
Anche il caregiver che regge la nuova esperienza può tuttavia scoprire la fatica della pur necessaria  funzione di “cuscinetto” tra persone dalla relazione complicata: da un lato una madre grande anziana cui la malattia ha rubato in parte le capacità cognitive senza però sottrarle l’imperiosità e una donna venuta da altrove, catapultata senza informazioni a vivere “giornate di quarantotto ore” in accudimento e controllo continuo. Non sono pochi i racconti delle telefonate assillanti, a volte dell’anziana, a volte della  sua assistente; frequenti i racconti delle reciproche malefatte.
 
Due figlie raccolgono i lamenti della madre:
 
“Quando è uscita  dal ricovero di sollievo abbiamo trovato questa badante, adesso vive con lei … però non vi dico tutti i giorni mia madre mi chiama, o la chiamo io. Lei telefona alle 8 del mattino, e poi alle 10, al pomeriggio, alla sera … a qualsiasi ora , e comincia : “Non va bene” e “Non pulisce, non fa da mangiare”… “M ha nascosto il pettine”… insomma mille problemi. Quindi…”
 
“Ho messo in casa una badante, la situazione non è delle migliori… Secondo me ha sviluppato un rapporto di odio e amore con questa persona. I primi periodi la prendeva addirittura per il collo, per cui… Ora, la domenica che sta con me perché la signora ha il giorno di riposo, mia madre è arrabbiatissima perché la badante non c’è, lo vive come un torto 'Mi ha abbandonato, mi ha lasciato, non vuole mangiare qui…'. Cerco di convincerla, poi, alla fine, esausta, lascio stare. E  il lunedì ricomincia con il dire che non la tollera più, non la vuole più in casa.”
 
Ma ci sono anche le telefonate di chi accudisce:
 
“… quando arriva la telefonata dalla badante che mi dice: “Signora Cecilia, mamma matta, mamma non riesco a calmare… vieni qua, io vado via…” a me vengono di quei fumi, ma mi vengono di quei travasi! Tutto questo stravolge la mia vita, stravolge il  rapporto con mio figlio! E coviamo questa rabbia! Questa rabbia che cresce, che cresce!”
 
Queste parole richiamano la definizione di “malattia della tolleranza” dello studioso francese Robert Hugonot riferita ai familiari per i quali il fardello della cura stia diventando insopportabile.
 
Quanto brevemente esposto fa concludere con un richiamo sulla necessità che le politiche per la non autosufficienza quando trattano del sostegno alle famiglie non si limitino alle forme di aiuto in denaro - coprisse anche per intero la spesa di un’ assistente familiare privata - eludendo la domanda ben più complessa di un accompagnamento professionale nella presa di decisione, di mediazione tra i membri della famiglia, di supporto all’“abbinamento” tra persona anziana e assistente privata, di monitoraggio, di intervento in momenti di crisi. E sul versante delle politiche per l’integrazione sembrano necessari percorsi formativi che portino le donne straniere a scegliere il lavoro di cura come professione di qualità, che le facciano passare dal generico “sapere di donna” a precise conoscenze di tecniche assistenziali, fornendo anche una solida preparazione relazionale per comprendere e maneggiare, pur provenendo da culture anche tanto diverse dalla nostra, la complessità dei nostri sistemi familiari, delle nostre storie.
 
Per chiudere, alla luce della suggestiva prospettiva offertaci da Elena Gianini Belotti nel suo recente libro intitolato “Cortocircuito”, se crediamo che nuovi lineamenti delle relazioni umane possano nascere da cortocircuiti provocati dal contatto, dalla vicinanza tra chi viene da altrove e chi attua accoglienza, uno strumento per provocare tali benefici cortocircuiti potrebbe essere uno “spazio libero per tutti” dove, al di fuori delle mura di casa, al di fuori dei ruoli di datrici di lavoro e di lavoratrici, le stesse donne che condividono la cura di un anziano, possano incontrasi come persone e imparare a riconoscersi come persone. [2]
 

[1] Termine coniato dalla Associazione La Bottega del Possibile di Torre Pellice e ora diffuso ed entrato nel linguaggio di studiosi, operatori, amministratori, politici, volontari. www.bottegadelpossibile.it
 
[2]   Su questa proposta si veda: Luatti L., Bracciali S., Renzetti R.(a cura), Nello sguardo dell’altra. Raccontarsi il lavoro di cura, in “Briciole”, 10, 2006.

 

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