Spezzare il cerchio.
Donne immigrate e lavoro di cura

di Chiara Saraceno - Facoltà di Scienze Politiche, Università di Torino
Gennaio 2008

 

In Italia ci sono oltre 2.600.000 persone che soffrono di una disabilità che vincola fortemente la loro autonomia in una o più attività essenziali nella vita quotidiana (occuparsi della propria igiene personale, nutrirsi, muoversi). Si tratta del 5% circa della popolazione di sei anni e più che vive a casa propria, cioè non in una istituzione. A questi vanno aggiunti i circa 170.000 anziani non autosufficienti che vivono in istituto. Gli anziani costituiscono oltre il 70% delle persone con disabilità, con una concentrazione tra gli ultraottantenni. Soffre, infatti,  di almeno una disabilità il 48% degli ultra-ottantenni. La maggior parte di loro vive a casa propria, non in un istituto [1].

Benché l'invecchiamento della popolazione sia un indicatore dei miglioramenti sia nella salute che nella medicina e benché la maggioranza delle persone passi gli anni della vecchiaia in buona salute, il rischio della disabilità, della perdita totale o parziale di autonomia, della necessità di dipendere da altri nella vita quotidiana coinvolge un numero crescente di persone. Coinvolge anche un numero crescente di famiglie che non sempre hanno le risorse  per fronteggiarlo, anche perché all'invecchiamento della popolazione corrisponde anche l'invecchiamento delle parentele. Oggi sono più numerosi i nonni dei nipoti, i bisnonni dei bisnipoti, ed anche spesso i genitori anziani rispetto ai figlia adulti. Ciò significa che un potenzialmente ampio bisogno intensivo di presenza, cure, tempo, è diretto, entro le reti parentali, ad un numero ristretto di persone, per lo più ulteriormente ridotto dato che entro la famiglia sono per lo più le donne - mogli, figlie, nuore - a farsi carico di questi bisogni.

Eppure, in un paese in cu i trasferimenti monetari sono fortemente squilibrati verso la popolazione anziana, al punto da farlo includere nel non nobile gruppo dei paesi caratterizzati da un "welfare dei pensionati", le domande di cura che provengono dagli anziani fragili e che gravano sulle loro reti familiari fanno fatica ad essere concettualizzate come issues di policy. Ancora più di quanto non avvenga in altri paesi, ove pure i servizi di cura per gli anziani hanno un grado di legittimazione più basso di quelli per i bambini e i problemi di conciliazione sembrano riguardare solo i genitori (le madri) di figli piccoli e non anche i coniugi e i figli delle persone non autosufficienti, nel nostro paese la cura delle persone non autosufficienti è affidata pressoché esclusivamente alla famiglia (e di fatto alle donne in essa).

Non stupisce allora che, analogamente a quanto avviene in altri paesi mediterranei che hanno una situazione simile, le famiglie si siano organizzate un proprio welfare informale approfittando della novità prodotta dai fenomeni migratori e in particolare di un largo settore di immigrazione irregolare che si offre a basso prezzo, consentendo il ricorso a servizi privati anche ad ampie fasce del ceto medio. Secondo dati OCSE, l'Italia, insieme alla Grecia e alla Spagna, è il paese con la più alta percentuale di immigrati impiegati nel settore dei servizi domestici [2]. Si tratta di un welfare a metà tra famiglia e mercato fortemente  personalizzato, che consente quell'ageing in place che tutti i documenti internazionali propongono come buona pratica, offrendo una alternativa alla istituzionalizzazione che è pressoché  l'unica, razionata, opzione disponibile nel nostro paese a livello di politiche pubbliche. 

Si tratta, tuttavia, di un welfare non solo totalmente affidato alle risorse famigliari (e quindi fortemente diseguale), ma anche esposto a rischi di sfruttamento (in ogni direzione) e inadeguatezza delle cure. Molte amministrazioni locali, specie nel Centro-nord, stanno attrezzandosi per cercare di governare in qualche modo il fenomeno, favorendo la costituzione di agenzie e di liste certificate, offrendo corsi di formazione, talvolta ricorrendo all'offerta di voucher per aiutare le famiglie a reddito più modesto a sostenere il costo di una badante all'interno di una più generale tendenza in questo settore a offrire indennizzi monetari piuttosto che servizi. Ma la gran parte di questo mercato della cura avviene al di fuori di ogni tipo di pur blanda regolazione. Lo stato centrale è rimasto per lo più a guardare. L'intervento più significativo ha riguardato l'istituzionalizzazione della figura della badante come categoria particolare e in qualche modo privilegiata in occasione dell'ultima regolarizzazione: una presa d'atto in qualche modo dovuta di una situazione di fatto, che tuttavia non entra nel merito né della disponibilità e accessibilità per tutti, né della qualità delle cure e neppure del tutto dei diritti delle lavoratrici coinvolte.

Questa disattenzione è la conseguenza del  modo stesso in cui la questione della cura è stata affrontata nel nostro paese: come un questione che riguarda esclusivamente le famiglie e le donne in esse, che non comporta specifici diritti né per chi ne ha bisogno né per chi la fornisce, e che non richiede particolari competenze, anche se ci si aspetta da chi la fornisce una capacità di relazione e di investimento affettivo fuori dal comune. Anche quando viene svolto in modo pagato, proprio perché si tratta insieme  di "lavoro da donne" e di "lavoro dell'amore" esso è considerato un lavoro poco qualificato, ma da chi lo svolge ci si aspetta dedizione totale. Se poi si tratta di donne immigrate il cerchio si chiude, nella sovrapposizione di tutti gli stereotipi possibili.
 


[1] Cfr. Istat, Indagine sulle condizioni di salute e sul ricorso ai servizi sanitari, Istat, Roma, 2000

[2] Cfr. OECD, Employment Outlook 2001

 

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