Senior cohousing per la promozione dell’invecchiamento attivo

di Chiara Lodi Rizzini - Secondowelfare
Novembre 2016

 
 

Invecchiamento attivo e casa 

La possibilità di disporre di un alloggio di qualità e idoneo alle proprie esigenze rappresenta una delle principali determinanti della qualità della vita dell’individuo e della sua inclusione nella società, tanto che le politiche abitative rientrano tra i pilastri del welfare state. La casa costituisce infatti un bene primario per diversi motivi: è il luogo in cui l’individuo trova risposta ad una serie di bisogni primari e secondari (riparo dal freddo, sicurezza, appartenenza, ecc.); delinea uno spazio di privacy, autonomia e indipendenza, pur con certi limiti; è il luogo attorno al quale vengono intessute relazioni e azioni sociali strutturate. In quest’ottica, la casa non è dunque solo un fine, ma può diventare anche un mezzo per raggiungere obiettivi sociali, ad esempio per promuovere l’invecchiamento attivo. 

Relativamente alla popolazione anziana, i problemi abitativi sono oggi meno legati al reddito e più ai servizi. Certo, gli anziani vivono spesso soli, e dunque le spese abitative risultano  onerose da sostenere, tanto più in caso di redditi da pensione contenuti (e che saranno sempre più contenuti in futuro). Tuttavia oggi una sfida parimenti importante appare quella di adeguare l’abitare ai nuovi processi di invecchiamento. La condizione degli anziani nel nostro paese è buona. I dati pubblicati a luglio da Istat indicano che l’incidenza della povertà assoluta diminuisce all’aumentare dell’età. Secondo Eurobarometro, il 64% degli intervistati italiani considera il nostro Paese come “age-friendly”, una percentuale alta e superiore a quella europea (57%)[1]. Secondo il Global AgeWatch Index[2], l’Italia è in 37esima posizione come qualità della vita per gli anziani, ma se sui fronti sanità e reddito siamo tra i migliori (rispettivamente sesta e 24esima posizione), la situazione peggiora molto circa capability e enabling societies and environment (63esima e  74esima posizione).La “nuova vecchiaia” mette dunque in discussione l’approccio tradizionale, basato sul passaggio netto dall’autosufficienza alla non autosufficienza, e si presenta piuttosto come un percorso di graduale perdita dell’autonomia che deve essere rispecchiato nei servizi, tra cui, appunto, quelli abitativi. Inoltre, l’allungamento dell’aspettativa di vita media e il miglioramento delle condizioni psico-fisiche dei “nuovi anziani” richiedono spesso strumenti meno assistenzialisti e più capacitanti. 

Il modello del senior cohousing 

Secondo i dati forniti dalla Commissione Europea, tra il 2010 e il 2060, il numero di persone ultrasessantacinquenni passerà dal 17,4% al 29,5% della popolazione totale ed il numero di persone ultraottantenni quasi triplicherà, arrivando al 12%[3]. In risposta a questo fenomeno, l’Unione Europea ha elaborato una serie principi guida e di strumenti atti a promuovere l’invecchiamento attivo e azioni di solidarietà di carattere intergenerazionale. 

“Invecchiare in modo attivo” significa rimanere autonomi il più a lungo possibile nel quotidiano e impegnati nella vita della collettività, contribuendo allo sviluppo economico e sociale del proprio paese. Questo obiettivo si raggiunge attraverso diversi strumenti (politiche per il lavoro, sostegno al reddito, salute e prevenzione, ecc.), tra cui la promozione della “vita indipendente”. Disporre di un’abitazione priva di barriere, adatta alle esigenze dell’età che avanza, economicamente sostenibile e non isolata da persone e servizi appare dunque fondamentale a questo scopo. 

Tra i modelli abitativi che perseguono questo obiettivo, viene sempre più spesso annoverato il cohousing, tipologia di abitazione collaborativa nella quale i residenti accettano di vivere come una comunità in cui le abitazioni private, che rimangono un inviolabile spazio di privacy, vengono completate da aree comuni che incoraggiano l'interazione sociale. Gli spazi privati contengono tutte le caratteristiche delle case convenzionali, ma i residenti possono accedere a ulteriori attrezzature e strutture comuni come giardini, lavanderie, sale hobbies, ecc. 

Il cohousing sembrerebbe in grado di promuovere l’invecchiamento attivo innanzitutto poichè favorisce l’engagement nella comunità, rispondendo alle esigenze di quelle persone che, una volta uscite dal mondo del lavoro, rischiano di perdere il senso della loro importanza. I cohousers possono essere infatti impegnati in pratiche di co-care per problemi assistenziali meno complessi e, pur non sostituendosi alle cure fornite dagli specialisti, possono supportarsi reciprocamente nei periodi di difficoltà. Inoltre si occupano direttamente della gestione della comunità e prendono decisioni generalmente attraverso processi partecipati e condivisi, per quanto conflittuali, implementando un approccio che vede gli anziani come cittadini attivi che hanno proprie idee e preferenze, che possono ancora dare un contributo alla società e vogliono prendere la loro vita in mano. Inoltre il cohousing favorisce l’inclusione sociale degli anziani, poiché offre loro un antidoto all'isolamento e l’opportunità di vivere quotidianamente con gli altri. Questo sia quando il cohousing è ristretto ai più anziani, sia, e soprattutto, quando è intergenerazionale. Si va infatti diffondendo anche la pratica di condividere le abitazioni con coinquilini sempre più eterogenei (bambini, giovani, famiglie, ecc.), realizzando una piccola comunità di abitanti che replica i modelli sociali e familiari. 

Certo, si tratta di pratiche che richiedono un radicale cambiamento di mentalità rispetto ai paradigmi attuali, che vedono gli anziani per lo più come soggetti vulnerabili e destinatari di misure assistenzialiste. Un cambiamento che deve essere promosso sia tra i policy maker, inducendoli a attivare progetti, destinare risorse e impiegare modalità di azione che vadano in questa direzione (cohousing, community planning, welfare di comunità, ecc.), che tra i cittadini. I pregiudizi culturali costituiscono infatti una barriera che ha frenato l'affermarsi del modello abitativo comunitario soprattutto in Italia, dove i bisogni di cura e socializzazione sono quasi esclusivamente soddisfatti all’interno della famiglia e dove le forme di proprietà classiche dell'abitazione sono preferite: gli anziani spesso non amano vivere con altri, condividere spazi e oggetti e sono restii a cambiare casa o quartiere. Tuttavia, è possibile che nei prossimi anni tale atteggiamento cambi. In parte per la necessità di cercare cura e socialità anche all’esterno della famiglia, a seguito dei cambiamenti delle strutture familiari e sociali; in parte perchè le future generazioni di anziani saranno probabilmente più informate e aperte ai nuovi servizi di welfare, tra cui appunto queste modalità abitative.

 

 
[1] European Commission (2012), Active Ageing Report, Special Eurobarometer 378, January 2012.

[2] Indice che raccoglie e confronta i dati provenienti dai database del Department of Economic and Social Affairs dell’Onu, della Banca Mondiale, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dell’International Labour Organization, di UNESCO e Gallup World Poll. Informazioni su http://www.helpage.org/global-agewatch/
 

[3] Maggiori informazioni sul sito della Commissione Europea http://ec.europa.eu/social/main.jsp?catId=1062&langId=en

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