Servizi condivisi: dove si gioca l'innovazione

di Sergio Pasquinelli - Istituto per la Ricerca Sociale, Milano
Marzo 2016


Se il welfare è di pochi

Due per cento, cinque per cento, tre per cento: sto leggendo i tassi d’uso dei servizi sociali e sociosanitari da parte della popolazione anziana. Viene da chiedersi: e tutti gli altri? Come si organizzano?

Segna il passo il welfare dei servizi. Quello per le disabilità in età giovane e adulta e per la non autosufficienza over 65. Una rete di aiuti in affanno che stenta a seguire i ritmi di crescita della domanda, in particolare quella della terza età. Una rete di aiuti che continua a essere disconnessa e sovrastata dal welfare solitario della moneta su richiesta, dei trasferimenti economici statali.

 

Servizi fermi?

I servizi per gli anziani che conosciamo di più, quelli più consolidati, l’assistenza a domicilio, i ricoveri in struttura e anche quelli a ciclo diurno, rappresentano oggi una realtà statica se considerata nei grandi numeri, nei tassi di copertura della domanda, nella diffusione sul territorio. Una nicchia di servizi che stenta a crescere, in un paese dove gli anziani aumentano al ritmo di 280.000 unità all’anno. L’Adi (l’assistenza domiciliare delle Asl) è l’unico servizio ad essere aumentato, ma in una misura eloquente: più 1,4% nell’arco degli ultimi sette anni, con grande variabilità da regione a regione.

Lavoriamo sulla valutazione multidimensionale del bisogno, o sui percorsi di presa in carico, perchè è necessario e qualificante. Ma talvolta con la sensazione di costruire una portaerei per farci atterrare un deltaplano, viste le dimensioni del bisogno intercettato. Il quale evidentemente, in larga maggioranza, si risponde da solo.

Va un po’ meglio per la disabilità giovane e adulta, l’unica area di interventi sociali che ha visto la spesa dei Comuni italiani aumentare negli ultimi anni (+ 60 milioni tra il 2011 e il 2012)[1]. Ma dove permangono dei vuoti: per esempio per chi fuoriesce dal circuito della neuropsichiatria infantile una volta diventato maggiorenne.

 

Nuovi luoghi, nuovi lavori, nuove tecnologie

C’è un grande bisogno di riarticolare i sostegni, sviluppare mix di interventi e servizi, sostenere più efficacemente l'ageing in place. Non c’è solo bisogno di “di più” ma anche “di diverso”.

In particolare nei servizi domiciliari, verso quella che abbiamo chiamato una “Domiciliarità 2.0”[2], che rilanci attività rimaste uguali negli anni e sempre meno efficaci. Una rete che valorizza i servizi più consolidati, li connette con interventi e progetti innovativi, che fa sintesi in termini di governo di sistema, e che guarda ai bisogni tutti interi non solo al disagio conclamato. E’ una rete che mette in relazione aiuti diversi: assistenza di base con quella specialistica, trasporti, residenzialità temporanea, i mille piccoli aiuti alla vita quotidiana, e che mette al centro non singole persone ma il sistema familiare.

Domiciliarità 2.0 è una rete che si adatta a bisogni diversi, che richiedono forte specializzazione ma anche aiuti semplici e a bassa complessità. Che offre cose diverse: informazioni, consigli, sostegni "leggeri", servizi strutturati. E’ una rete che guarda al caregiver, non solo al portatore principale di bisogno, e alle rispettive esigenze. E’ una rete che valorizza tutte le risorse intermedie comprese tra la propria casa e il ricovero in struttura: una rete il cui sottosviluppo alimenta il fenomeno dei ricoveri impropri e quello delle cure domiciliari poco efficaci.

Un welfare di nicchia chiama allo sviluppo di una spazio che viene prima dei servizi: luoghi di primo livello, che informino e che diffondano proattivamente conoscenze utili, cioè luoghi che si fanno prossimi alle famiglie. Occorre creare una informazione che non aspetta di essere intercettata, ma che intercetta lei il bisogno potenziale. Anche attraverso il modello “One stop shop”: punti di accesso a bassa soglia che integrano, valorizzandole, le risorse di aiuto esistenti nelle comunità. Serve per questo un lavoro non facile di collaborazione e di ricomposizione tra ente pubblico e terzo settore, e tra sociale e sanità, capace di superare la logica degli steccati, ancora molto presente. I vari PUA attivati in diverse regioni hanno finora mostrato, da questo punto di vista, risultati incerti.

Servono riconoscimenti per nuove figure professionali emergenti, e non è un caso che queste fanno riferimento a un aiuto condiviso : l’infermiere di comunità, la baby sitter condivisa, la badante di condominio (ora proposta anche dall'Anac, l'associazione degli amministratori di condominio), il manager di rete. Figure oggetto di sperimentazioni che dovrebbero essere meglio conosciute, fatte crescere.
Lo stesso spazio per affermarsi lo cercano nuove piattaforme digitali, come nel caso delle app (in piena fase espansiva) che offrono informazioni sulle prestazioni, i servizi e le opportunità disponibili per le famiglie, comprese quelli legati al ricorso a una badante. E non vi è dubbio che le nuove tecnologie possono aiutare molto a creare un welfare più prossimo alle persone. 

 
 

[2] Si veda il “Primo rapporto sul lavoro di cura in Lombardia”, capitolo 6. Download: http://www.maggioli.it/lombardiachecura/

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