di Patrizia Taccani - Psicologa, formatrice, consulente di AIMA Milano Onlus
Febbraio 2014
Prendersi cura
“Sono una caregiver. Mio marito ha il Parkinson da venti anni. Per me tutto è difficile, anche andare a fare la spesa se lui si trova in situazione off. E’ economicamente impossibile permetterci una persona che stia con noi a tempo pieno. Sono contenta che si cominci a parlare di questi problemi.”
Riporto dal sito della Cooperativa
“Anziani E Non Solo” di Carpi (
www.anzianienonsolo.it). Questa breve testimonianza spinge a più di una riflessione:
“Sono una caregiver.”
Lapidaria autodefinizione: ci troviamo di fronte a un familiare che ha maturato consapevolezza rispetto al ruolo assunto in lunghi anni di lavoro di cura. Ciò significa aver trovato la capacità di vedere, vivere ed elaborare i cambiamenti avvenuti anche a livello sociale nel mondo della cura informale: una cittadina, dunque, che si trova
più avanti di molti decisori delle politiche sociali, tanto è vero che, commentando l’iniziativa di una progetto di legge regionale volto al “riconoscimento del caregiver”
[1] dice:
“Sono contenta che si cominci a parlare di questi problemi.”
Queste parole suscitano almeno una domanda. Come mai a molti di noi, studiosi, ricercatori, operatori, forse anche ad alcuni amministratori, sembra che intorno a
questi problemi si rifletta, si parli da tempo, e chi li vive rimanda, invece, la percezione di un pesante e prolungato silenzio su di essi? L’ipotesi più immediata riguarda lo scarto tra il pensiero e la sua traduzione in operatività, tra l’affermazione dei diritti e la loro reale tutela, tra la conoscenza dei bisogni e la modestia di risposte appropriate. Riconoscere istituzionalmente il ruolo di caregiver significherebbe quindi dare un segnale positivo, “portare una buona notizia, fare una proposta onesta” in termini di politiche sociali, per usare parole del giornalista e scrittore Franco Bomprezzi.
[2]
“Per me tutto è difficile, anche andare a fare la spesa se lui si trova in situazione off.”
Altra sollecitazione che ci porta a vedere la solitudine di chi cura, se non un vero e proprio isolamento tra le mura domestiche. Un fatto quotidiano e scontato come l’uscire di casa per breve tempo può trasformarsi in una sorta di 6° grado alpinistico, in particolare nella fase in cui la non autosufficienza del malato si accentua.
Aiuti “a pagamento”
“E’ economicamente impossibile permetterci una persona che stia con noi a tempo pieno.”
Risposta anticipata alla domanda che tutti avanziamo di fronte al burnout del caregiver sfiancato da una pluriennale assistenza, o anche solo alla percezione di una stressante quotidianità: “Perché non pensare a una persona che aiuti, sostituisca, accudisca il familiare malato e disabile, fornendo sollievo a chi da anni gli sta accanto?”
Entriamo così nel vivo del tema: prendersi cura in tempo di crisi economica.
[3]
Sembra importante affrontare il tema dei costi di un’assistenza privata perché ormai numerosi sono gli studi sulla vulnerabilità delle famiglie sul piano economico, su quanto sia fluido e facilmente valicabile il confine del territorio abitato da chi non è povero per andare verso quello di chi lo è diventato. Cresce il numero delle “famiglie in affanno”. Famiglie che corrono il rischio di impoverirsi per l’impatto di fattori negativi diversi e specifici di ogni storia familiare, tra i quali occupa un posto di rilievo la presenza di malattie croniche e invalidanti di uno dei propri membri.
Se dalla fine degli anni novanta abbiamo assistito al crescente numero di
caregiver già sul campo,opotenziali, che hanno potuto affidare l’anziano parente a una “badante”, o da essa si sono fatti affiancare (ad esempio nel caso dei coniugi), oggi iniziamo a sentire dalla viva voce dei caregiver come la risorsa di un aiuto esterno a pagamento, anche quando auspicata, possa diventare non praticabile per i costi. Recentissimi i dati della ricerca
Spi-Cgil Lombardia-IRES in cui si calcola come la spesa media per una “badante” (1276 Euro mensili circa) risulti essere superiore al reddito di circa il 50% degli assistiti.
[4] Anche da un osservatorio come il gruppo di automutuo aiuto
[5], di modesta dimensione numerica ma ricco di dati qualitativi raccolti dall’esperienza dei partecipanti, stiamo rilevando il passaggio dal lavoro di cura affidato “a mani altre”
[6] alla ricerca di strategie interne alla famiglia per coprire l’assistenza all’anziano non autosufficiente in modo possibilmente adeguato, ma a costi contenuti.
Un esempio lo forniscono figlie e figli - giovani-adulti tra i 35 e i 45 anni - che usando strategicamente della loro (non invidiabile) posizione professionale caratterizzata dal lavoro autonomo, lavoro saltuario, occupazione a tempo parziale, compongono un quadro dell’assistenza al proprio genitore anziano definibile con l’immagine del “gioco d’incastro”. Assumono l’assistente privata per lo stretto necessario e il resto delle ore è coperto dai loro interventi: ci sono i turni, la rotazione nel caso di più figli, c’è il sovraccarico di un andirivieni tra la casa dell’anziano e la propria, ancor più cogenti gli obblighi se si tratta di un figlio unico. I costi in termini di fatica fisica ed emotiva da pagare per l’organizzazione dell’assistenza, gli spostamenti, il rispetto degli orari, il monitoraggio, il tamponamento delle emergenze, gravano pesantemente sulle loro spalle. Si evidenzia così la richiesta di una doppia flessibilità, insieme al rischio di impoverire la propria professionalità per carenza dei necessari e continuativi investimenti di pensiero, di studio, di creatività, di sperimentazione.
Se tanti sono i figli caregiver, molti sono i coniugi caregiver: alcuni di loro sono avanti negli anni, altri fanno parte del gruppo definito dei “giovani anziani”. In generale si tratta di cittadini che godono di una situazione economica migliore rispetto alle precedenti generazioni arrivate alla vecchiaia, ma soprattutto migliore rispetto a quella di figli e nipoti. E infatti – sempre dal nostro modesto osservatorio – vediamo che sono loro a usufruire maggiormente dell’assistenza privata con l’assunzione di donne (per lo più) straniere a tempo pieno o per un congruo numero di ore giornaliere.
Tutto bene, quindi, almeno per loro? Oggi, e nel breve periodo, così parrebbe. Quando ne ascoltiamo i racconti scopriamo, tuttavia, che le coppie anziane di cui ci stiamo occupando - dove un membro è incolpevole consumatore di ingenti risorse assistenziali e sanitarie e l’altro ne è oculato gestore/amministratore - se hanno figli, sono sempre più spesso chiamati a mettere in atto forme diverse di sostegno economico nei confronti loro e della loro famiglia. Come dire che in questo attuale, e più volte nominato, tempo di crisi, avviene che là dove vi sia cronicità e non autosufficienza con bisogni crescenti, aumentano anche le probabilità che i cittadini vadano incontro all’assottigliamento delle risorse personali con le quali farvi fronte. All’evento critico di una grave e lunga malattia si sommano, per molti, le criticità della situazione di figli richiedenti una qualche forma di sostegno economico, raramente negata.
[1] Progetto di legge Regione Emilia Romagna, "Norme per il riconoscimento ed il sostegno del caregiver familiare (14/ 11/2013).
[2] Franco Bomprezzi ha coordinato un ampio confronto sul tema “Un’emergenza chiamata povertà” al 3° Forum delle Politiche Sociali a Milano, 25 gennaio 2014.
[3] Questa parte dell’articolo riprende alcune riflessioni scritte per “Lombardia Sociale” (23/11/ 2013).
[4] In “Lombardia Sociale”, 18/12/2013.
[5]Si tratta dei gruppi di automutuo aiuto dove chi scrive svolge il compito di facilitazione. Cfr. www.aimamilano.org
[6] Cfr. Taccani P., (2013) “Da mani familiari a mani altre”, in Pasquinelli S., Rusmini G., Badare non basta, Ediesse, Roma.