di Grazia Colombo – sociologa e formatrice
Maggio 2009
Non è facile tracciare degli elementi chiari sul lavoro di cura, perché si tratta di analizzare un mondo variegato di persone, di luoghi, di posizioni, di sogni e di delusioni molto differenti. Tuttavia occorre tentare di comprendere meglio quali condizioni di lavoro e di vita desidererebbero avere le assistenti familiari e quali strategie di lavoro e di vita hanno e riescono a mettere in atto per gli anni successivi. Quelli che seguono sono solo degli spunti per mantenere aperta l’attenzione.
I dati, le testimonianze, i racconti di vita che fin d’ora abbiamo avuto modo di conoscere, ci dicono che non sempre è chiara per queste lavoratrici una strategia per la vita futura. La nostalgia per il proprio paese e la propria famiglia fa dire loro che ritorneranno là o faranno venire qui i propri familiari. Riguardo al lavoro, in generale ritengono di poter mettere sul nostro mercato, in quella zona silenziosa del lavoro di cura, le loro competenze già presenti e agibili, per il solo fatto di essere donne.
Questa condizione di “lavoro 24 ore su 24” è una sorta di trappola: in un certo senso non è percepito come vero lavoro, bensì come mancanza di libertà, dovuta al fatto di trovarsi in una casa non propria, alle condizioni di conduzione della casa di altri - spesso di un’altra donna - magari disabile ma con il potere di “essere in casa sua”. D’altra parte è un lavoro che contemporaneamente ti dà una casa, da mangiare, dei soldi e anche una quota di relazioni. Sanno, anche se è molto difficile da esprimere, di portare il peso di aver spezzato la catena della cura nella loro famiglia, lasciando figli e genitori anziani, e di venire qui a fare proprio quello, per soldi e forse anche per un anelito di libertà. Sono tutti sentimenti pesanti da portare dentro di sè, in particolare per una donna.
Molte sanno bene che lavorerebbero e faticherebbero di più facendo un turno di otto ore in un altro luogo lavoro, per vedersi riconosciuto uno statuto lavorativo più preciso. Qualcuna, proprio per questa ragione, si sente di affrontarlo “Da qualche mese ho trovato lavoro in fabbrica…speriamo che vada tutto bene, mi sento ora di esistere, di essere libera…con la signora non avevo possibilità di dormire si svegliava molte volte nel sonno …ma non riuscivano a capire le mie difficoltà. Sono contenta di aver cambiato, gli anziani non capiscono che viviamo un vita che passa molto presto e non possiamo vivere come macchine, abbiamo anima e cuore e cervello. Soffriamo molto per questo. Non dico rispettate ma almeno capite”, mentre altre soppesano vantaggi e svantaggi “Mi piacerebbe fare anche altri lavori in Italia ma credo che il guadagno sia maggiore in questo tipo di lavoro, specialmente per il cibo e alloggio che mi vengono forniti dalla famiglia e…quasi tutto quello che guadagno lo mando a casa a mia figlia, così a tredici anni potrà fare per la prima volta un po’ di vacanza al mare…non ha mai visto il mare e per il suo compleanno le regalerò una bicicletta…grazie al mio lavoro potrò fare queste cose” .
Lavoro trasparente, vite trasparenti. Le loro vite sono diverse, come lo sono le loro età e forse anche il ceto familiare da cui provengono. Tutto ciò che si cela dietro l’essere e l’essere vissute come “badanti”, le rende uguali agli occhi delle persone locali. Ciò che nella cultura locale fa la differenza – come ci si veste, come si parla, che posti si frequentano – nel loro caso diventa un elemento assolutamente trasparente, invisibile agli occhi locali, una sorta di furto di identità, cui queste donne non sanno dare parola ma che sicuramente è parte di quel sottile malessere che viene riferito come “non mi considerano una persona come loro”.
Cosa vorrebbero per sé, per il futuro, dal punto di vista professionale e personale? Lo sforzo di farsi andar bene la realtà attuale sembra annullare desideri o strategie future, soprattutto per quanto riguarda il lavoro, che sembra non avere alcuna necessità di perfezionamento.
Il periodo attuale sembra essere una parentesi nella propria vita personale “Io non vedo futuro per me qui, mi sento come “un uccello in gabbia”, desidero tornare in Ucraina e stare tranquilla con la mia famiglia, grazie anche ai soldi che ho guadagnato qui…però sono veramente stanca di lavorare con i nonni”, “Spero di trovare l’amore e restare in Italia…anche senza lavorare, lavoro da quando ho diciassette anni, guadagnando poco...forse l’ho già trovato speriamo….speriamo sia bravo”, “Vorrei cambiare lavoro per me è molto stancante non ho avuto un minuto di respiro con la signora precedente a questa… a livello fisico ed emotivo è un lavoro difficile, poi attualmente con questa signora non mi trovo proprio, ha un carattere impossibile, preferirei lavorare in fabbrica, così potrebbe raggiungermi in Italia mio marito”.
Qualcuna ha dei desideri, prova a pensarsi nella comunità della città in cui lavora oggi e domani, senza nascondersi le difficoltà di potersi reciprocamente riconoscere, ciascuno portatore di uno specifico culturale. Vi sono desideri quasi inconfessabili “Quello che mi manca tanto è il teatro e i concerti”. Non si tratta solo di differenze culturali, ma di differenze “di vita” che possono rendere difficili altri progetti. “Per noi è molto complesso fare dei progetti a lungo termine…veniamo in Italia attraverso la malavita e questo è vergognoso, umiliante e costoso. E’ vero che dobbiamo pagare qualcuno perché ci dia il posto di lavoro. Ma quando siamo in regola, anche con tanti aspetti negativi, siamo contenti”.
Fare progetti o sognare di essere una persona, normale, fra le altre?
Nota: i brani di intervista sono stati raccolti in una ricerca nell’ambito del Progetto Madreperla a Reggio Emilia.
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