di Cristina Mazzacurati - Master in Studi Interculturali, CIRSSI, Università di Padova.
Aprile 2007
Chiunque abbia esperienza diretta della realtà delle assistenti familiari sa come oggi in Italia essa sia composta almeno per una buona metà da lavoratrici irregolari, senza permesso di soggiorno. L'ampia diffusione dell'irregolarità è un aspetto che, oltre ad incidere sulle condizioni di vita e di lavoro delle badanti, sulla qualità e la tenuta dei rapporti di cura, ha ricadute immediate sul problema della formazione. L'impossibilità attuale di estendere le azioni di formazione a queste donne comporta infatti un duplice effetto: non solo il numero dei potenziali utenti viene di colpo dimezzato ma, cosa ben più grave, vengono escluse dalla formazione le persone che ne avrebbero realmente più bisogno, le donne di recente immigrazione, che parlano poco e male l'italiano, che poco o nulla sanno delle leggi italiane e dei propri diritti, che a volte non sanno come prendersi cura di un anziano malato e che soprattutto non saprebbero a chi rivolgersi nel caso di un'emergenza.
Se la possibilità di estendere la formazione a chi è irregolarmente presente in Italia incontra limiti legislativi insormontabili, le vie di uscita fin qui sperimentate hanno prodotto ben poco. Così è per la formazione organizzata all'estero, a cui nella maggioranza dei casi hanno partecipato lavoratrici già impiegate in Italia da irregolari, trasferite nei paesi di origine per partecipare ai corsi di formazione, con la garanzia di un reingresso, questa volta legale, in Italia.
Questo sistema appare francamente paradossale: viene assicurata la legalità solo al prezzo di privare le famiglie, a volte anche per diversi mesi, del servizio di assistenza stesso. Per non parlare poi dei numerosi corsi organizzati per sole regolari a cui hanno partecipato di fatto solo lavoratrici irregolari, a cui è stata a volte prospettata la possibilità di un accesso privilegiato alle quote dei decreti flussi annuali, un incentivo di non poco conto, che a conclusione della formazione è rimasto sistematicamente disatteso. Tutto questo mentre nelle parrocchie fioriscono corsi, principalmente di italiano, a cui partecipano con entusiasmo soprattutto le irregolari, mentre i corsi ufficiali, finanziati dagli enti locali e quindi rivolti alle regolari, stentano spesso a trovare persone disposte ad iscriversi.
In generale le resistenze alla formazione al lavoro di cura sono note e diffuse, e sembrano accomunare i diversi soggetti coinvolti. Tanto per le assistenti quanto per gli assistiti, il lavoro di cura è spesso percepito come qualcosa di naturalmente femminile, per cui la formazione è considerata superflua, ("mi vuoi forse insegnare a fare le pulizie?"), mentre l'eventuale frequenza di corsi potrebbe minacciare il poco tempo libero a disposizione delle donne migranti, se organizzati come spesso accade nei fine settimana, oppure il tempo dell'assistenza, se tenuti nei giorni lavorativi.
Alle condizioni attuali, e non si tratta solo di una provocazione, si può affermare che i corsi di formazione, in particolare se sganciati da altre azioni di sistema, rappresentano il mezzo più semplice e contemporaneamente più economico a disposizione dei diversi enti locali, per dimostrare che si sta facendo qualcosa. Sommando provocazione a provocazione, ci si potrebbe anche domandare a quali bisogni, ai bisogni di chi, la formazione di base stia dando attualmente risposta: Al bisogno di occupazione degli enti formatori? Al bisogno del sistema del welfare di giustificare le proprie lacune? Al bisogno dello stato di compensare almeno in parte la propria tolleranza verso la dilagante irregolarità che attraversa questo settore?
Una risposta a queste domande dipinge un quadro sconfortante, di cui il meno che si possa dire è che i reali destinatari debbano essere, in un modo o nell'altro, convinti del loro bisogno di formazione. Ciononostante e nonostante tutti i vincoli e le difficoltà che ci troviamo di fronte, ritengo sia doveroso provare a riesaminare tutta la questione da un diverso punto di vista. Credo allora legittimo tentare di utilizzare le poche risorse a disposizione, risorse spesso spendibili in formazione, con l'obbiettivo di rispondere almeno in parte ad alcuni dei bisogni reali, espressi o inespressi, dai diversi soggetti coinvolti: famiglie, anziani e donne migranti.
Cioè: una volta appurato che la formazione può essere rivolta alle sole regolari, a persone cioè che vivono in Italia già da alcuni anni e che ritengono di non aver bisogno di essere formate, che cosa ci rimane?
Ci rimane una lista, direi non piccola, di problemi e di bisogni: la situazione di isolamento, la solitudine degli anziani e delle donne migranti, le difficoltà di relazione dovute ai tanti equivoci che si possono creare nella convivenza all'interno dello spazio domestico, la mancanza di chiarezza nelle regole e nei ruoli che spesso portano al veloce deterioramento del rapporto di cura, alla reciproca disillusione e alle reciproche recriminazioni, il mancato riconoscimento del ruolo sociale dell'impegno delle famiglie verso i propri anziani e del lavoro delle donne migranti.
Ecco che, allora, a determinate condizioni, un semplice corso di formazione può diventare il "grimaldello" che permette di entrare nel regno privato della casa e delle relazioni intime, con l'obbiettivo di sostenere, più che formare, il lavoro di cura. Detto altrimenti: l'obbiettivo minimo, ma non per questo poco importante, di un corso di formazione potrebbe essere quello di dare l'occasione alle persone a uscire di casa.
Le condizioni che mi sembrano essenziali a questo fine sono, in estrema sintesi, le seguenti:
- Svolgere la formazione una sola volta alla settimana, ma in orario lavorativo, in modo da non privare le donne migranti del poco tempo che hanno a disposizione per sé.
- Organizzare un servizio di assistenza sostitutiva per non far mancare alle famiglie la copertura assistenziale nelle ore in cui la badante è impegnata nella formazione, o nel caso la salute dell'anziano lo permetta, organizzare azioni di intrattenimento e animazione rivolte agli anziani assistiti nei locali attigui a quelli in cui si svolge la formazione.
- Creare un circuito virtuoso d relazione e conoscenza tra i diversi soggetti coinvolti nella formazione, famiglie, anziani, badanti, docenti, volontari, tramite l'organizzazione di momenti di incontro facoltativi nei fine settimana. Gli appuntamenti possono comprendere: laboratori di cucina, laboratori di narrazione autobiografica, incontri su diversi aspetti della cultura e della storia italiana e dei paesi di provenienza delle donne migranti.
- Individuare moduli formativi diretti al sostegno della relazione di cura, da un lato rendendo espliciti i diritti e i doveri dei diversi soggetti coinvolti, dall'altro innalzando la capacità di comprendere e gestire i conflitti relazionali.
L'efficacia di queste azioni verrà presto sperimentata all'interno di un progetto pilota organizzato dal Comune di Padova, con la collaborazione dell'Università di Padova (CIRSSI, Centro Interdipartimentale di Ricerca e Servizi per gli Studi Interculturali), dell'Azienda USSL 16, il coordinamento provinciale dei CTP (Centri Territoriali Permanenti per la formazione linguistica), e con il co-finanziamento della Provincia di Padova e della Regione Veneto.
Dopo aver fatto un po' di pubblicità alla nostra iniziativa, do appuntamento ai lettori di Qualificare ad un futuro intervento, nel quale spero di poter esporre le prime valutazioni sull'andamento del progetto.