Assistenti familiari e lavoro di cura

A cura dell'Istituto per la Ricerca Sociale, Milano
Settembre 2006

 

Si riportano qui alcune prime evidenze della ricerca che verrà presentata e discussa a Milano, mercoledì 20 settembre, presso il Palazzo delle Stelline (clicca qui per il programma).

La ricerca è stata svolta nell'ambito del progetto Equal "Qualificare il lavoro privato di cura" (codice IT-G2-LOM-006) da un gruppo di lavoro dell'Istituto per la Ricerca Sociale (IRS) di Milano.

Suo obiettivo principale è stato quello di capire qual è la propensione delle assistenti familiari a qualificare il proprio intervento, a formarsi, ad emergere dal mercato irregolare. La base conoscitiva è costituita da 354 interviste ad assistenti familiari, svolte nelle province di Milano e di Brescia.

Uno sguardo d'insieme
Chi sono le assistenti familiari lombarde e che tipo di lavoro svolgono?
Il lavoro di cura in Lombardia è prestato quasi esclusivamente da donne, in larga parte provenienti dall'Europa dell'Est (56% nel nostro campione lombardo) e dal Sud-America (30%) ed in misura minoritaria dall'Africa e dall'Asia. E' in lieve crescita la presenza di italiane (3%).

L'impegno lavorativo è consistente: la condizione di co-residenza con l'assistito riguarda il 70% delle assistenti familiari. Quelle che lavorano per il maggior numero di ore al giorno sono le europee dell'Est, che più frequentemente convivono con il datore di lavoro, mentre le altre, tendono più spesso ad avere una residenza indipendente e a lavorare per un numero inferiore di ore.

Diversi segnali ci portano a dire che sta oggi diminuendo la disponibilità alla co-residenzialità. Ciò può essere letto come un indicatore di integrazione sociale delle assistenti familiari, che acquisiscono progressivamente una propria autonomia abitativa. Inoltre, può essere questo uno dei motivi per cui si registra da più parti una ripresa di domande di ricovero in strutture residenziali per anziani, con relativo allungamento delle liste d'attesa.

La propensione alla formazione e alla regolarizzazione lavorativa
L'analisi della propensione alla formazione e alla regolarizzazione lavorativa evidenzia un quadro caratterizzato dai seguenti elementi.

1. Prevale una mentalità secondo la quale il lavoro di cura non richiede specifiche competenze, in quanto consisterebbe essenzialmente in attività legate ai normali comportamenti quotidiani della "donna di casa". Per svolgere il lavoro di assistenza a domicilio risulterebbe sufficiente - secondo le assistenti familiari - la naturale predisposizione femminile nei confronti dei compiti di accudimento. L'interesse a partecipare a corsi di formazione risulta, infatti, piuttosto circoscritto: solo un'assistente familiare su tre ha frequentato dei corsi di formazione in Italia, il più delle volte comunque non legati all'ambito della cura, mentre la disponibilità a qualificarsi nel settore dell'assistenza domiciliare risulta preso in considerazione in poco più della metà dei casi.

2. Il lavoro di assistenza non è un'aspirazione personale diffusa: metà delle assistenti familiari vorrebbe fare un altro lavoro e tra le motivazioni prevalenti legate alla scelta di svolgere il lavoro di badante vi è innanzitutto la maggiore facilità a trovare uno sbocco occupazionale in questo ambito (21%), spesso l'unico effettivamente accessibile (24,8%) a donne immigrate, con titoli di studio quasi mai riconosciuti nel nostro paese.

3. Esiste una 'segregazione occupazionale' dei lavoratori di questo comparto. I tentativi di ricerca di lavori alternativi, compiuti dal 47% delle assistenti familiari, ha dato prevalentemente un esito negativo e quelle poche che avrebbero trovato un altro lavoro non hanno potuto accettare perché avrebbero guadagnato meno, o perso l'alloggio.

La maggioranza delle badanti continua a lavorare nell'ambito del lavoro di cura più per "rassegnazione" che per reale convinzione; sembra cioè prevalere una inerzia rispetto al lavoro di cura, condizionata dallo spirito di sacrificio nei confronti di figli e famiglie rimaste nel paese d'origine.

Prevale inoltre una percezione distorta dei possibili sbocchi occupazionali alternativi al mercato della cura; il mercato alberghiero e della ristorazione, caratterizzati in Italia da una ricettività più elevata, non sono presi in considerazione dagli intervistati, che viceversa si sono maggiormente orientati verso settori più saturi.

4. L'assenza di un regolare contratto, che secondo le nostre stime riguarda il 20% delle assistenti familiari con permesso di soggiorno, è dettata da interessi economici convergenti del lavoratore e del datore di lavoro. Ciò è anche alla base della bassa propensione a regolarizzarsi. Emerge inoltre una consistente zona grigia tra regolarità e non regolarità lavorativa: le ore dichiarate sul contratto risultano, per i due terzi di chi ha un regolare contratto di lavoro, inferiori al numero di ore effettivamente lavorate, evidenziando la  presenza  di 'forme di nero parziale'.

5. Problematica si rivela l'effettiva applicazione dei diritti dei lavoratori: in almeno un caso su tre si è dimostrato del tutto non rispettato il contratto di lavoro, sia dal punto di vista  della possibilità di usufruire di giorni di permesso e riposo pagati, sia di permessi orari; inoltre, 1 badante su 3 non gode di giorni di malattia retribuiti.

Sud-americane e asiatiche, più giovani, più intenzionate a un ricongiungimento familiare in Italia: sono queste le assistenti familiari maggiormente propense a formarsi e a qualificarsi come tali. Più in specifico, l'interesse alla formazione e alla regolarizzazione lavorativa si legano a tre fattori determinanti:

a. Il paese di provenienza
b. Gli aspetti economici
c. La disponibilità del datore di lavoro

In base alla provenienza è possibile mettere in evidenza tre profili:

Il primo è dato dalle lavoratrici di provenienza dall'Est Europa, con progetto migratorio di breve periodo (circa un terzo intenderebbe trattenersi in Italia solo 2/3 anni), senza corsi formativi alle spalle e con scarsa propensione a seguirne in futuro; oltre il 67% di esse non ha fatto alcun tentativo di ricerca di lavori alternativi, dal momento che la maggior parte delle assistenti familiari di questo gruppo continuerà a lavorare nel breve-medio periodo come badante, anche se preferirebbe farlo per meno ore al giorno. Si tratta essenzialmente di lavoratrici co-residenti.

Il secondo profilo vede concentrate soprattutto donne asiatiche e africane, ma anche molte sud-americane. Si tratta di donne con progetti migratori di lungo periodo (quasi il 44% vuole rimanere per sempre in Italia), che progettano il ricongiungimento familiare, più propense ad innalzare le proprie competenze nel lavoro di cura e che spesso hanno già seguito corsi di formazione in Italia (oltre il 40%). In questo caso la variabile discriminante è il titolo di studio: più è alto, più si aspirerebbe a cercare lavoro in ambiti diversi da quello familiare, in ospedale o casa di riposo.

Il terzo profilo riguarda infine le assistenti familiari italiane. Sono solo il 3% del totale, ma in lieve aumento. Si tratta delle lavoratrici con il titolo di studio più basso, che lavorano decisamente per meno ore al giorno (4/5 in media), con poche esperienze formative pregresse. Il lavoro di badantato risulta assumere per queste lavoratrici la connotazione dell''ultima spiaggia", dal momento che circa il 90% avrebbe tentato la ricerca di lavori alternativi, con scarso successo.

La questione economica influenza pesantemente sia la mancata partecipazione delle assistenti familiari a generici corsi di formazione, sia la loro propensione ad una riqualificazione professionale specifica in materia di lavoro di cura. L'impossibilità a ritagliarsi del tempo libero rinunciando allo stipendio, o a compartecipare alla spesa di un eventuale corso, sono risultate comuni alla maggioranza delle assistenti familiari, indipendentemente dalla provenienza, ad eccezione delle sud-americane che per quasi il 32% sono interessate a partecipare a corsi, anche senza un rimborso spese, contro il 14,5% della media del campione.

Il fattore economico entra in gioco anche con riferimento alla regolarizzazione lavorativa: per il 76% delle assistenti familiari con regolarizzazione "al minimo", la principale motivazione a non dichiarare l'effettivo numero di ore lavorate dipenderebbe dal costo troppo elevato a carico del datore di lavoro. E' questo il motivo per il quale la maggioranza delle regolarizzazioni, specie di assistenti familiari conviventi, si attesta sulle 25 ore settimanali, corrispondente, di fatto, al monte ore settimanale minimo per lo scatto della fascia di contribuzione INPS meno onerosa.

Altro fattore determinante la propensione alla formazione è risultata essere la disponibilità del datore di lavoro: l'87% delle assistenti familiari dovrebbe chiedere il 'permesso' e oltre la metà dovrebbe trovare un sostituto per il periodo di assenza durante la frequentazione del corso. Tale vincolo tenderebbe ad assumere un peso anche maggiore tra le badanti con regolare contratto di lavoro.

 

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