Le assistenti familiari nei nuovi Piani di zona

di Sergio Pasquinelli - Istituto per la Ricerca Sociale, Milano
Febbraio 2006

 

Il 2005 è stato l'anno dei nuovi Piani di zona. Certo, non in tutte le regioni. Lo è stato in Lombardia, Emilia Romagna, Campania, per rimanere a quelle più popolose.

Tra le novità, e sono tante, di questa seconda tornata c'è il tentativo di intervenire sul mercato privato della cura. Sono molti i piani che affrontano il tema, che si pongono il problema di come regolare, sostenere, qualificare la presenza delle "badanti". Una scelta a favore della domiciliarità: e tuttavia ci si rende conto che la questione è difficile, perché si tratta di una realtà nascosta, sfuggente. I nuovi piani sollecitano alcune considerazioni.

Primo. Su questa partita ci si muove in ordine sparso. Indicazioni regionali su come e con quali strumenti intervenire sul fenomeno sono assenti o molto deboli. Tale assenza inizia a pesare vistosamente in quanto lascia i singoli territori sostanzialmente soli, occupati in una sorta di bricolage di strumenti diversi.

Le Regioni intervengono prevalentemente su due piani: quello formativo (corsi per assistenti familiari) e quello del sostegno economico alle famiglie (assegni di cura, buoni servzio). Tuttavia sono poche quelle che operano contemporaneamente su questi due livelli. Quand'anche presenti entrambi, come in Emilia Romagna, essi non interagiscono, per cui chi viene formato non trova necessariamente sbocchi reali, all'interno del cosiddetto mercato regolato. Viceversa, chi viene pagato attraverso sostegni finanziari non è necessariamente qualificato.

A livello di ambiti di zona si cerca allora di comporre una "strategia" mettendo insieme azioni diverse. In aggiunta o in sostituzione - quasi mai in modo complementare - a quelle regionali. Le politiche delle regioni e quelle dei singoli ambiti di zona sembrano talvolta davvero separate. Il che costituisce un criticità sempre più marcata, tanto più che investe, oggi, un numero crescente di azioni programmatorie: politiche regionali e politiche locali che non legano, che non si "utilizzano" a vicenda.

In assenza de "la" soluzione al problema di come qualificare il mercato della cura, le regioni dovrebbero quantomeno favorire una maggiore circolazione di conoscenze e scambi tra i territori, perché sapere cosa funziona e cosa no è di fondamentale importanza e sulle buone prassi c'è fame di confronti.
In particolare, è sulla formazione che è importante agire a livello sovra-locale, perché la certificazione dei crediti e gli albi hanno scarsa rilevanza se circoscritti a singoli ambiti di zona. Su questo anche le Province possono aver un ruolo importante, in base alle loro competenze istiuzionali in tema di formazione professionale.

Secondo. Molti piani di zona insistono su due cose: formazione delle badanti e loro "accreditamento", attraverso albi professionali. E poi? Un mercato regolato non nasce come conseguenza automatica di queste azioni. Impariamo dall'esperienza: chi si è limitato ad esse ha registrato impatti assai modesti. Un mercato regolato non si crea peraltro nemmeno mandando la Guardia di Finanza a casa delle famiglie, come è successo in alcuni comuni lombardi. Nasce, oltre che da una migliore informazione alle famiglie (1), dalla combinazione di tutele e incentivi economici.

Il punto è: in cambio di che cosa si è disposti a rinunciare alla convenienza del mercato irregolare? Secondo me in cambio di due cose: un insieme di garanzie e tutele rispetto al lavoro di cura e una contropartita economica. Due dimensioni che devono saldarsi.

Tutele che riguardano il lavoro delle badanti e ciò che le famiglie ricevono, nel senso di: a) garantire una continuità assistenziale; b) garantire un intervento qualificato; c) garantire una messa in rete con il sistema dei servizi.  
E poi incentivi economici, in grado di aiutare a sostenere il maggiore costo di una assistente in regola. Non assegni di cura aperti a qualsiasi utilizzo ma finalizzati, vincolanti.

Occorre tenere insieme queste due dimensioni, tutele e incentivi, trovare un punto di equilibrio, delicato perché variabile. In alcune esperienze infatti la disponibilità dell'ente locale a coprire la differenza di costo tra un'assistente con contratto e una senza non è stata sufficiente, da sola non ha attratto le famiglie. La copertura di tale differenziale deve essere accompagnata da un insieme strutturato e convincente di tutele. Se ciò avviene, la capactà di attrazione sul mercato diventa senz'altro più forte.
E' su questi aspetti che si giocano molte delle sperimentazioni in corso.

Terzo. Si fa strada la consapevolezza di quanto sia necessaria una regia di sintesi sulla domiciliarità. Una regia capace di vision prospettica, che metta in asse risorse, soggetti e possibilità di intervento.

Una regia che affronti la complessità: servizi sociali e socio-sanitari, assegni di cura e buoni, centri diurni, attività di sostegno territoriale. Interventi che si sono stratificati nel tempo, aggiungendosi l'uno sull'altro, senza coagularsi attorno a un pensiero, una visione, una programmazione unitaria.

Come sta in relazione il lavoro privato di cura con le strutture residenziali e i servizi domiciliari? Come valorizzare i secondi a favore del primo? Se è vero che il mercato privato ha prodotto ripercussioni importanti sul sistema dei servizi, residenziali e domiciliari, esso è chiamato a un nuovo ruolo, di sostegno, coordinamento, supervisione. Un governo "di sintesi" dovrebbe presidiare questi cambiamenti, mettere in relazione le risorse con i bisogni e prendere decisioni con un minimo di lungimiranza.


 

Nota
(1) Per esempio sui rischi della irregolarità. Sono in aumento le assistenti familiari che fanno causa, quasi sempre vincendola, alla famiglia per cui hanno lavorato senza contratto: una informazione su questo potrebbe rappresentare un maggiore disincentivo al lavoro irregolare.

 

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