Non autosufficienza: il welfare dei distretti sociali

di Sergio Pasquinelli – Istituto per la Ricerca Sociale, Milano
Maggio 2009

 

La possibilità di migliorare la rete di interventi per i non autosufficienti si gioca – in misura rilevante – al livello degli ambiti distrettuali. Dove amministratori, dirigenti e operatori dispongono di margini importanti per determinare gli accessi, la qualità dei servizi, le priorità di investimento.
E’ un cantiere aperto, un laboratorio di iniziative, sperimentazioni, progetti. Il cui buon esito si gioca in particolare su tre partite: la necessità di costruire regole condivise; la necessità di dare nuovi impulsi a sostegno della domiciliarità;  la necessità di dotarsi di un governo di sistema. Vediamole distintamente.

Costruire regole condivise
Premessa per governare una rete territoriale, sovracomunale, è un sistema di regole condivise. Che riguarda i criteri di accesso, i livelli di compartecipazione ai costi, il contenuto dei servizi e così via. Dove non si sono avviate forme di gestione associata dei servizi sociali come aziende o consorzi, la regolazione rimane oggi invece in larga misura municipale. Il processo di unificazione dei regolamenti di accesso e gestione dei servizi è ancora di là da compiersi. E anche quando avviato, il risultato è talvolta frutto di una mediazione al ribasso, che lascia ampie discrezionalità.
I Piani di zona sono il luogo idealmente deputato a prendere decisioni sui servizi sociali territoriali. Tuttavia, il loro potenziale è stato sfruttato, finora, solo in parte. La costruzione di regole condivise è un prerequisito per garantire equità e ridurre le diseconomie. Ne sanno qualcosa i molti servizi domiciliari che sono oggi sempre più interessati da questo processo.

Nuovi servizi domiciliari
E’ cambiata molto la realtà dell’assistenza domiciliare. Fino agli anni Novanta sugli aiuti offerti nel proprio ambiente di vita si è giocata la possibilità di una rete di aiuti non segregante. Ma oggi è cambiato completamente il contesto di riferimento, e ciò richiede risposte all'altezza [1]. Mi limito a richiamare l’aumento costante delle disabilità di tipo cognitivo, a fianco di deficit fisici, e poi la crescita pervasiva del lavoro privato di cura: due fenomeni rispetto a cui i servizi domiciliari sono chiamati a posizionarsi. In due direzioni.

La prima: un’utenza sempre più complessa richiede di integrare sempre più servizi sociali e sanitari, un’integrazione da realizzare in capo alle persone e ai loro bisogni. Se ne parla da molti anni, ma in realtà Sad e Adi - i due servizi domiciliari per eccellenza - funzionano ancora quasi sempre come binari paralleli. Siamo ancora in una situazione in cui un operatore domiciliare, anche con qualifica sociosanitaria, non può per esempio applicare una pomata o cambiare una fasciatura semplice a un anziano, perché non rientra nel suo mansionario. Deve farlo appositamente un’infermiera. Con diseconomie per i servizi e disorientamento per gli utenti.

La seconda: le assistenti familiari hanno progressivamente "sgonfiato" l'assistenza domiciliare pubblica, di tipo sociale. Un'assistenza oggi limitata nei numeri, circoscritta nelle funzioni, sempre più chiusa in una nicchia di fragilità gravi. Sono convinto che il futuro dei Sad si giochi nella possibilità di collegarsi con il lavoro privato di cura, qualificandolo, sostenendo azioni di tutoraggio on the job, formazione, accreditamento delle competenze. Fronti diversi su cui - come riporta anche questo numero della newsletter - continuano a nascere progetti e su cui bisognerebbe "capitalizzare" meglio le buone prassi.

Un governo di sistema
L’intervento sul lavoro privato di cura mette in chiaro l’esigenza di un “governo di sistema”, con una capacità di visione d’insieme. Una funzione di regia rispetto all’ormai ampio quadro degli aiuti a favore della popolazione anziana: servizi residenziali, servizi domiciliari, assegni di cura e voucher, risorse territoriali e così via. Interventi che si sono spesso stratificati nel tempo, aggiungendosi uno sull’altro, ma che raramente si sono coagulati attorno a un pensiero, una visione, una programmazione unitaria.

Facciamo un esempio. Non è univoca la scelta su chi dovrebbe per primo beneficiare degli assegni di cura: gli anziani che hanno una rete di cura e caregiver, oppure gli anziani soli? In termini redistributivi il discrimine riguarda l’utilità: chi ne trae maggiore beneficio? La risposta può essere: chi ha una rete di aiuto, a patto che chi è solo venga sostenuto con altri strumenti - servizi diretti, domiciliari, in particolare.
Una scelta chiama allora altre scelte, perchè il sistema è concatenato. Scelte che riguardano i criteri di accesso ai servizi, gli investimenti da fare, i progetti da privilegiare. Ciò richiede una regia d’insieme, organica, che sovrintenda servizi e prestazioni diverse, e che le colleghi alle specificità dei bisogni. Che possa variare le scelte e modulare le risposte in base ai bisogni che il territorio esprime.

Una regia di sistema non è un luogo che semplifica i problemi ma che presidia le relazioni, che governa gli interventi  e le connessioni tra di essi monitorandoli, valutandoli in relazione alla dinamica della domanda. Che assume la responsabilità di stare sul ponte di comando gettando lo sguardo al di là delle contingenze immediate.
 


 

[1]  Se ne discuterà il prossimo 10 giugno a Genova, nel convegno "E adesso dove vado?" promosso da Federsanità Anci Liguria (scarica qui il programma).
 
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